“Crisi globale dell’economia”, è questa una delle espressioni più
diffuse che hanno riempito le prime pagine dei giornali e i titoli dei
telegiornali negli ultimi due anni. Perché? Che cosa è successo?
Esiste un metodo di analisi che possa mostrare in maniera semplice se
non i meccanismi dettagliati di questa crisi, almeno le caratteristiche
generali e intrinseche del complesso economico-politico che pare essere
franato tutto d’un colpo?
Attraverso lo studio della critica di Noam Chomsky al neoliberismo
contemporaneo la risposta più plausibile è che il sistema fosse
destinato a tale fine; l’analisi del linguista statunitense, infatti,
pare essere uno strumento in grado di darci un criterio per disegnare
questo quadro, grazie alla descrizione di un rapporto biunivoco tra
politica ed economia.
Il punto di partenza è, dunque, la critica al neoliberismo, concetto
guida dell’economia degli ultimi decenni. Ma cosa si intende per
neoliberismo?
La definizione teorica di questo termine è: una dottrina economica
che sostiene la liberazione dell'economia dallo Stato, la
privatizzazione dei servizi pubblici, la liberalizzazione di ogni
settore non strategico e la fine di ogni chiusura doganale; in sintesi,
la teoria economica del mercato del globale che secondo le analisi degli
economisti ha fallito, come spiega in modo esplicito, Duccio Cavalieri,
professore ordinario di economia dell’Università di Firenze:
“In breve, la crisi ha evidenziato la mancanza nel sistema
capitalistico attuale di validi meccanismi di autoregolazione del
mercato. In questo senso, si può certamente parlare di fallimento del
neoliberismo..”
Ma questo sistema economico funziona davvero così? Realmente risulta
essere svincolato dalle politiche statali e fondato su una vera
autoregolazione del mercato?
Da qui prende le mosse lo studio di Chomsky. A suo parere, infatti,
il primo passo per comprendere una catena economica è sicuramente la
struttura politica in cui essa si muove.
L’autore inizia la sua riflessione dalla fine della II guerra
mondiale, vero e proprio nodo storico verso la struttura attuale delle
relazioni internazionali.
Egli ci descrive gli anni che in scienza politica sono definiti del
bipolarismo, dove gli Stati Uniti si presentavano come leader globali
per potenza e ricchezza, con l’auspicio di mantenere tale ruolo ed
estendere il loro sistema economico in quella che era chiamata la
“Grande Area”, ossia tutta la porzione del globo al di fuori del blocco
sovietico. In che modo gli Stati Uniti volessero imporre il proprio
dominio, Chomsky lo ricava da un memorandum rimasto a lungo segreto, lo
Studio di Pianificazione Politica n° 23, scritto da George Kennan, capo
dell’ufficio programmazione del Dipartimento di Stato, nel 1948. La
sintesi di esso è che, al fine di mantenere la superiorità conseguita,
le strategie avrebbero dovuto privilegiare una politica di potenza,
libera da sentimentalismi e ideologie quali ad esempio l’idea che il
governo fosse responsabile del benessere di tutta la popolazione, o la
difesa dei diritti umani, perché l’unico interesse da difendere era
quello statunitense, ossia, come Chomsky stesso sottolinea, le necessità
dell’economia americana. Egli ricava, dunque, da queste linee guida, la
chiave per interpretare tutte le azioni militari degli USA dopo la II
guerra mondiale. Ad ogni zona della “Grande Area”, infatti, era stato
affidato un ruolo, e se uno stato all’interno di essa si fosse rifiutato
di svolgerlo, l’intervento americano sarebbe stato immediato, come la
guerra del Vietnam ben dimostra.
Questo prima parte di analisi suggerisce, pertanto, un primo paletto
da porre alla definizione di neoliberismo. Se la scacchiera mondiale è
soggetta in questi termini alla politica dello stato leader, infatti, il
concetto di libero mercato trova un primo concreto ostacolo.
L’analisi di Chomsky non si ferma qui comunque, ma anzi indica
un’altra tappa storica fondamentale per comprendere lo stato attuale
delle cose, prettamente legata alla realtà finanziaria. L’anno è il
1971, quando una profonda accelerazione verso il neoliberismo
contemporaneo fu causato dalla decisione dell’amministrazione Nixon di
smantellare il sistema economico mondiale nato dagli accordi di Bretton
Woods (1944), abolendo la convertibilità del dollaro. Vediamo perché:
“Gli accordi di Bretton Woods miravano a controllare il flusso dei
capitali. Nel secondo dopoguerra, quando Stati Uniti e Gran Bretagna
hanno creato questo sistema, c’era un gran desiderio di democrazia. Il
sistema doveva preservare gli ideali sociali democratici, in sostanza lo
Stato previdenziale. Per farlo occorreva controllare i movimenti di
capitali. Se li si lascia andare liberamente da un paese all’altro,
arriva il giorno in cui le istituzioni finanziarie sono in grado di
determinare la politica degli Stati. Costituiscono quello che viene
chiamato “Parlamento Virtuale”: senza avere un’esistenza reale, sono in
grado di incidere sulla politica degli Stati con la minaccia di ritirare
i capitali e con altre manipolazioni finanziarie.[...] Così in tutto il
mondo, si assiste da allora a un declino del servizio pubblico, alla
stagnazione o al calo dei salari, al deterioramento delle condizioni di
lavoro, all’aumento delle ore lavorative.”
A seguito di queste affermazioni, la rete politico-economico
risultante si profila così: da un lato una politica unilaterale imposta
dal leader globale al resto del pianeta, dall’altro la possibilità per i
flussi di capitale di muoversi liberamente all’interno di questo
spazio. Il disegno non è ancora concluso, ma è importante notare, a
questo punto, una considerazione ovvia ma degna di essere esplicata: a
chi appartengono questi capitali liberi di muoversi all’interno del
sistema? Ovviamente alle grandi multinazionali, in particolare quelle
americane.
Ma perché questo libero flusso di capitali, ha causato nel corso
degli anni un costante impoverimento della popolazione, una riduzione
dei salari e il declino del servizio pubblico?
La spiegazione può essere formulata attraverso tre valutazioni.
Consideriamo, in primo luogo, il libero movimento dei capitali: è
questo il fattore principale che negli anni ha determinato la costante
contrazione dei salari e il calo del loro potere d’acquisto. Questo
perché la possibilità di spostare il denaro senza barriere è divenuta
una delle più potenti armi delle imprese da schierare contro le
richieste delle associazioni dei lavoratori per un miglioramento delle
loro condizioni di retribuzione o di lavoro in generale. La semplice
possibilità di poter minacciare di trasferire la produzione a proprio
piacimento, o averla spostata in luoghi dove il costo della manodopera
era decisamente inferiore, ha progressivamente annichilito le
rivendicazioni della classe lavoratrice, posta in una condizione di
precarietà sempre crescente.
La seconda domanda da porsi è: da dove arrivano questi enormi
capitali che i gruppi di potere, gli investitori, spostano a loro
piacimento e senza porsi troppe domande? Chomsky risponde e dimostra che
la risposta è “dallo Stato”. Si può definire questo passaggio come
cruciale nell’analisi della Sua critica al neoliberismo, perché esso
spiega due fatti:
A) il neoliberismo è pura teoria, l’economia reale è profondamente influenzata dagli stati;
B) le industrie delle multinazionali americane hanno sempre
sovvenzioni o finanziamenti statali, pertanto mentre i profitti sono
privati, i costi e i rischi gravano sulla popolazione.
Per spiegare il primo punto, Chomsky sottolinea come i due principali
propugnatori internazionali del neoliberismo, USA e Gran Bretagna, in
particolare a partire dagli anni ’80, nelle figure dell’allora
presidente Ronald Reagan e del Primo Ministro Margaret Tatcher, abbiano
sempre attuato misure protezionistiche di grande portata a difesa dei
loro mercati interni. Analizzando il bilancio dell’amministrazione
Reagan pubblicato sulla rivista “Foreign Affairs”, l’autore afferma che
“egli fu il regista della più grande svolta verso il protezionismo mai
verificatasi a partire dagli anni trenta.”
Alla luce di queste considerazioni, e in relazione all’analisi della
politica internazionale statunitense fatta in precedenza, possiamo
quindi affermare che se si può parlare di neoliberismo, esso va definito
unilaterale. L’azione internazionale statunitense apre la strada agli
investimenti delle sue grandi aziende, impone le modalità di governo e
le politiche necessarie per favorirle e, nello stesso tempo, le mette al
riparo dalle possibili conseguenze negative che il sistema da loro
imposto potrebbe causare di riflesso.
Oltre ad essere protette dall’esterno, però, le grandi multinazionali
sono difese dalla politica anche all’interno dei loro stati. Infatti,
le misure protezionistiche garantiscono loro il mercato su cui far
rifluire i prodotti (oltre a quello creato all’estero), godono di una
legiferazione che gli garantisce, spesso, più diritti di un singolo
individuo (per fare un esempio si consideri in Italia la Legge Maroni) e
ottengono il denaro da investire da sovvenzioni statali, fatto
totalmente contrario alla teoria neoliberista.
In questo senso, quindi, Chomsky afferma che i profitti sono privati ma i costi e rischi sono pubblici, socializzati.
Il risultato di queste analisi evidenzia tre caratteristiche fondamentali:
A) il progressivo impoverimento delle popolazioni degli stati
potenti, poiché su di esse gravano i costi militari, i finanziamenti
alle multinazionali e il progressivo calo dei salari;
B) lo sfruttamento delle aree più arretrate del pianeta, che fungono
da bacino di risorse, umane e materiali, sia per la produzione sia per
la creazione di nuovi mercati;
C) l’alleanza “Stato-Capitalismo” come arma di difesa.
Se il quadro era ed è questo, non era forse destino che la crisi
mondiale, che oggi ci investe, piombasse sulle nostre teste? Certamente,
come afferma Cavalieri, questo “neoliberismo” ha fallito.
Ha forse ragione Noam Chomsky, quando afferma che la comprensione
della politica e dell’economia è alla portata di tutti, se si smaschera
la retorica che le circonda e si raccontano i fatti per quello che sono?
Autore: Matteo De Laurentis / Fonte: rebelion.org